Perchè voto SI al referendum sull'art.18

Vorrei chiamarvi a spendere un po’ del vostro tempo a riflettere su cosa andremo a votare il 15 giugno e sulla sua reale portata.
Questo è il punto: l'impatto economico che può derivare dalla vittoria del SI. L'estensione maggiore di un diritto non dovrebbe creare in sé divisioni nella maggioranza della gente (non solo nella sinistra). Ma così è attualmente.

Il quesito propone alcune questioni che nel minestrone massmediatico sono passate in secondo piano e quasi mai sono spiegate chiaramente, vorrei perciò provare a dare un quadro della situazione e spiegare perché è importante andare a votare Si.
Per prima cosa bisogna rilevare che l'art.18 non restringe gli ambiti del licenziamento per le imprese, ma si occupa dell'obbligo di riassunzione del lavoratore licenziato senza "giusta causa", ovvero al di fuori degli ambiti stabiliti per legge, ed è quindi una tutela da eventuali discriminazioni, giacché comunque il licenziato può rifiutare la riassunzione se ritiene che l’ambiente di lavoro non gli permetta più di svolgere le sue attività in modo sereno. In quest’ultimo caso il lavoratore avrà diritto ad un’indennità degna e maggiormente idonea alle difficoltà che possono sorgere dalla perdita del lavoro. Il licenziamento regolato da leggi apposite, anche per le imprese al di sotto dei 15 dipendenti, è comunque previsto e giustificato nel caso in cui le imprese debbano affrontare eventuali difficoltà economiche. L'abrogazione dei limiti all'art.18 avrà quindi l'effetto di estendere a tutti il diritto di essere riassunti se oggetto di discriminazioni o in alternativa ricevere il corrispettivo di 15 mensilità.

La pericolosità denunciata da chi sostiene il No si fonda sulla convinzione che questa norma applicata ad aziende di dimensioni ristrette finisce per bloccarne la capacità di assumere nuovi lavoratori. L'obiezione non è di poco conto, perché l'Italia ha un'economia strutturata intorno alle piccole e medie aziende, che hanno sostenuto la crescita del paese anche nei momenti di crisi della grande industria. Lasciando da parte le strumentalizzazioni che l’attuale maggioranza porta continuamente sui media senza mai scendere nei reali termini del problema, le accuse più dure all’art.18 anche nella formula attuale, arrivano dai radicali e quindi dai convinti liberisti, favorevoli allo sviluppo di un modello di mercato con meno vincoli e più flessibilità.

Questa interpretazione del mondo del lavoro è però estremamente pericolosa. Infatti, nella sua linearità di pensiero, che affascina i suoi sostenitori, finisce per sacrificare all’economia l’esistenza dei lavoratori. Il lavoro è in un impresa l’unico costo flessibile, quindi l’unico che può essere immediatamente aumentato o diminuito a seconda delle necessità. Le implicazioni sociali di una totale flessibilità del mercato del lavoro così concepito possono essere facilmente immaginate e si stanno in parte verificando, coinvolgendo inevitabilmente altri settori come quello dell’istruzione, ormai sacrificata al ruolo di produttrice di individui funzionali alle necessità delle imprese (le tre I), con poco riguardo per il pensiero, la cultura, la formazione di coscienze critiche…Tengo a precisare che questa non è una presa di posizione ideologica, ma è una convinzione che dovrebbe essere portata con forza alle istituzioni, senza cadere nelle provocazioni di chi addita di conservatorismo coloro che non “riescono a capire come funziona il mondo”. Purtroppo credo che nella storia lo abbiano capito in pochi.

Ritornando agli aspetti economici del quesito, quindi, penso che una vittoria del Si non creerebbe quel disastro occupazionale che si sta paventando. Nessuna statistica è riuscita a dimostrare che la cosiddetta “flessibilità in uscita” produce occupazione. Ritengo riduttivo additare l’art 18 come la causa della proliferazione dei contratti atipici (cosa che più volte ho colto nel corso dei dibattiti in TV). Inoltre non credo sia molto saggio e onesto prendere come esempio economico gli Stati Uniti, nei quali l’aumento dell’occupazione negli ultimi vent’anni ha sicuramente radici in un mercato proporzionalmente molto più ampio di quello italiano (e in precedenza anche di quello europeo) e non si può poi tacere che l’attuale attacco allo stato sociale americano, se uno ne esiste, è accompagnato da un aumento della disoccupazione e da un numero di posti persi che solo nell’ultimo anno ha raggiunto il milione.

E’ bene però precisare che sicuramente l’estensione dell’art.18 non può rappresentare una soluzione alle difficoltà occupazionali e che non va a modificare la situazione degli atipici. Come giustamente è stato fatto notare da molti il referendum non è lo strumento adatto per iniziare una riforma del lavoro e sono convinto che i promotori abbiano sbagliato nel promuoverlo, forse eccessivamente trasportati dalle grandi manifestazioni dello scorso anno.
La via più ragionevole sembrerebbe quindi quella dell’astensione, ma astenersi, nei fatti, significa dare la vittoria al No, alla riforma che il Patto per l’Italia dovrebbe portare avanti, alle idee rilanciate da questo governo sostenuto da Confindustria. In pratica il fallimento del referendum lascerà la strada aperta alla spinta verso la liberalizzazione del mercato del lavoro.

Chi con ciò è d’accordo è libero di portare avanti le sue scelte in modo coerente.
Il Si e la speranza che vinca nascono quindi dalla volontà di lanciare un messaggio a chi decide e a chi dovrà lavorare per ristrutturare il mondo del lavoro, un messaggio che indichi fortemente in quale direzione la gente vuole che il mondo cambi. La sfida, per quanto utopica possa sembrare, è quella di costruire il lavoro intorno alla persona e non viceversa. Se il mondo sta cambiando dovremmo essere noi a decidere come deve cambiare. Il Si, non risolverà problemi del sistema, forse ne creerà altri, ma se riteniamo che il sistema sia sbagliato allora dobbiamo cominciare a dare dei segnali più forti. Anteporre un diritto alla crescita economica è un segnale forte che spero molti condividano.

Francesco Ricci

 

 

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