Bartolomeo Sorge s.i., “Appello di fine Legislatura”, Aggiornamenti Sociali, 2 [2005] 93-98, Editoriale.

Girano per internet pezzi monchi di questo editoriale, che non rispettano la intrinseca logica che lo tiene avvinto nella sua struttura ideale e propositiva. Qui avete il testo completo e integrale di P. Sorge, che da par suo riflette sul berlusconismo, le sue premesse teoriche e le conseguenze pratiche. Vale la pena rifletterlo in questo tempo e diffonderlo, possibilmente integralmente. Chi scrive è P. Sorge, già Direttore di Civiltà Cattolica, già Direttore del Centro Pedro Arrupe di Palermo e ora Direttore della Rivista "Aggiornamenti Sociali" del Centro dei Gesuiti "San Fedele" di Milano. L'Uomo sa quello che scrive e se di norma tutti dicono quello che pensano, P. Sorge pensa quello che dice e scrive. Ora ci aspettiamo le accuse di "comunista", di traditore della "civiltà occidentale" e forse... anche della Madonna dell'Equilibrio . Siamo facili profeti se anticipiamo che ben presto P. Sorge sarà proposto per un ricovero in qualche clinica di lifting politico-religioso.

Questo editoriale sta a dimostrare che la misura è colma, il rischio è grave, il momento è decisivo. Nessuno può dire "non tocca a me", ma questo è il tempo dell' "I CARE" tanto caro a don Lorenzo Milani e alla migliore gioventù di tutto il mondo.

Se da una parte la stragrande maggioranza della gerarchia cattolica si è schierata con il proprio "tacere" dalla parte sbagliata della storia politica del nostro Paese, facendo confusione tra il bene e il male, smarrendo il proprio ruolo di guida morale, dall'altra sappiamo che la coscienza della stragrande maggioranza dei credenti ha a cuore la sorte del bene comune, della democrazia e dell'onore del nostro Paese, oggi governato e gestito da un comitato di malaffare, predoni travestiti da agnelli, senza etica e senza limiti di arroganza. No, non ci siamo fatti ubriacare dalla legge sulla procreazione assistita, sui matrimoni omosessuali o sui finanziamenti agli oratori e nemmeno dalla legge sugli insegnanti di religione. Al prossimo referendum sulla procreazione, molti, moltissimi cattolici, forti della loro autonomia di coscienza in fatto di realtà terrestri (Lumen Gentium, 36/381; Gaudium et Spes, 36/1431; Apostolicam Actuositatem 7/938, ecc.) e gelosi custodi dei propri diritti costituzionali, andranno a votare, scegliendo secondo la propria coscienza illuminata e formata, consapevoli che ogni diserzione da un appuntamento elettorale è sempre una sconfitta della democrazia e delle regole del confronto democratico. I cattolici non hanno paura né di vincere né di perdere, essi hanno la consapevolezza del sale e del lievito di evangelica memoria.

Buona lettura a tutti e auguri di "poca" pena a P. Sorge che salutiamo e abbracciamo con affetto e stima immensi.

Paolo Farinella, prete

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Nonostante la crisi strisciante, l’ipotesi più probabile è che il Governo giunga alla sua scadenza naturale. Anche in questo caso, però, è certo che le elezioni regionali e amministrative di primavera daranno il via nello stesso tempo all’ultima fase della Legislatura e alla campagna elettorale per le politiche del 2006. Sembra dunque questo il momento opportuno per proporre alcune serie considerazioni, affinché gli italiani riflettano sulla situazione presente e sulle scelte da fare.

La XIV Legislatura passerà alla storia come quella del «berlusconismo». È un brutto neologismo, ma è destinato a restare. Sta per: «fare politica prevalentemente nell’interesse proprio e dei propri amici (e dei ceti medio-alti)». Apparve fin dall’inizio che Berlusconi era preoccupato anzitutto di provvedere agli interessi propri e dei suoi. Infatti, cominciò a eliminare l’imposta di successione e quella sulle donazioni, a depenalizzare il falso in bilancio, a legalizzare il rientro dei capitali esportati illegalmente, e diede il via a una serie ininterrotta di condoni e di sanatorie; quindi, per difendere sé e i suoi dalla «persecuzione» della magistratura, tergiversò sulle rogatorie internazionali e sul mandato di cattura europeo, autorizzò la sospensione o il trasferimento dei processi per «legittimo sospetto» (legge Cirami), fino a giungere — ai nostri giorni — a ridurre i termini di prescrizione, con l’intento trasparente di salvare l’amico Previti (legge Cirielli).

Era fatale che, perseguendo interessi personali o di gruppo, prima o poi si finisse col trasgredire non solo lo spirito, ma la lettera stessa della Costituzione. I numerosi casi di leggi bocciate per incostituzionalità dal Capo dello Stato e dalla Corte Costituzionale devono fare riflettere. Se prima le «lamentele» venivano sostanzialmente dall’opposizione o anche da voci autorevoli indipendenti, negli ultimi tempi sono dovute intervenire le stesse istituzioni preposte alla difesa della democrazia. È stato il caso, per esempio, della legge Bossi-Fini, bocciata su un punto delicatissimo di cultura giuridica come le garanzie processuali e le restrizioni della libertà personale; del «lodo Schifani», che mirava a «congelare» i processi a carico delle più alte cariche dello Stato; della legge Gasparri sul riassetto del sistema radiotelevisivo; della riforma dell’ordinamento giudiziario, fiore all’occhiello del Governo. E sarà difficile che eviti lo scoglio della incostituzionalità il progetto di legge costituzionale sulla devolution, tuttora in itinere.

I frequenti interventi degli organi supremi preposti alla tutela dello Stato democratico sono la conferma autorevole che oggi in Italia è in atto il tentativo di modificare le basi della convivenza sociale e politica del Paese, attraverso lo sconvolgimento della Costituzione repubblicana. È ben vero che molti in politica hanno fatto i propri affari anche prima di Berlusconi, anche nella prima Repubblica, anche con il centro-sinistra. Oggi però non si tratta solo di un calo di tensione morale, ma il problema si pone a un livello più alto e pericoloso, tanto da obbligare a intervenire ripetutamente le istituzioni di tutela della democrazia.

A questo punto emerge con chiarezza il vizio intrinseco del «berlusconismo», inteso sia come programma, sia come filosofia politica: la mancanza di senso dello Stato e del bene comune, da cui è affetto in radice, finisce col favorire la illegalità e mette a repentaglio la stessa democrazia. Ecco perché non si può più tacere. È un grave dovere morale aprire gli occhi di quanti aderiscono al «berlusconismo» in buona fede, soprattutto di quei «cattolici» che lo ritengono in linea con la dottrina sociale della Chiesa, solo perché ha approvato la legge sulla procreazione assistita, si oppone al riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali o finanzia gli oratori.

Perciò è importante:

1) prendere coscienza delle premesse teoriche errate su cui poggia il «berlusconismo»;

2) denunciare simmetricamente le gravi responsabilità del gruppo dirigente dell’opposizione;

3) rinnovare l’appello ai «liberi e forti», affinché i riformisti mostrino di essere effettivamente pronti all’alternativa di Governo.

1. Le premesse errate del «berlusconismo»

Il pensiero politico moderno considera giustamente il principio del bene comune fondato sul primato della persona come il cardine della democrazia rappresentativa. Dal canto suo, l’insegnamento sociale cristiano rafforza ulteriormente questo principio, quando afferma che «il bene comune è la ragion d’essere dell’autorità politica» (Compendio della dottrina sociale della Chiesa [CDS], n. 168); in altre parole, lo Stato e i politici hanno il dovere morale di anteporre sempre il bene comune agli interessi individuali o di parte. Ciò comporta in concreto che, «nello Stato democratico, in cui le decisioni sono solitamente assunte a maggioranza dai rappresentanti della volontà popolare, coloro ai quali compete la responsabilità di governo sono tenuti a interpretare il bene comune del loro Paese non soltanto secondo gli orientamenti della maggioranza, ma nella prospettiva del bene effettivo di tutti i membri della comunità civile, compresi quelli in posizione di minoranza» (ivi, n. 169).

Se questo è il principio cardine della democrazia moderna e dell’insegnamento sociale della Chiesa, appare subito quanto il «berlusconismo» sia lontano dall’una e dall’altro. Infatti, la concezione neoliberista a cui esso si ispira lo porta, all’opposto, a privilegiare gli interessi personali e privati e a concepire il bene comune come la somma del benessere degli individui. Favorisce perciò i ceti medio-alti piuttosto che le fasce popolari, nella persuasione che se i ricchi stanno meglio, anche i poveri ne trarranno vantaggio. Si spiega così, per esempio, perché presti più attenzione allo sviluppo del Centro-Nord che a quello del Sud; perché, confondendo solidarietà con assistenzialismo, propugni lo smantellamento dello Stato sociale, anziché la sua riforma. La medesima ispirazione ideologica individualistica e utilitaristica spiega perché i principi della «partecipazione responsabile» e della «concertazione» siano stati sostituiti con quelli della «competitività» e della «logica ferrea della maggioranza», introducendo nella vita della comunità nazionale fattori di continua conflittualità.

Tutto ciò non solo contrasta con la concezione stessa della democrazia rappresentativa, ma è esattamente il contrario di quella «forte tensione morale» nella ricerca del bene comune, su cui tanto insiste la dottrina sociale della Chiesa, necessaria «affinché la gestione della vita pubblica sia il frutto della corresponsabilità di ognuno nei confronti del bene comune»; è questo «uno dei pilastri di tutti gli ordinamenti democratici, oltre che una delle maggiori garanzie di permanenza della democrazia» (ivi, nn. 189 s.).

Ora, se il «berlusconismo» fosse soltanto una delle tante concezioni politiche che si confrontano liberamente nel rispetto delle regole democratiche, il pericolo di guasti irreparabili sarebbe relativo. La sua pericolosità per la stessa vita democratica deriva invece dal fatto che una sola persona ha in mano tutti i poteri: da un lato, dispone direttamente del legislativo e dell’esecutivo, dall’altro condiziona l’economico e il mediatico. L’unico potere che finora le sfuggiva era quello giudiziario; ma anch’esso sta per essere messo sotto controllo, attraverso la legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, il cui rinvio alle Camere da parte del Capo dello Stato può solo ritardarne l’approvazione, cosicché non resta che sperare nell’intervento inevitabile della Consulta. Del resto, chi controlla il potere legislativo e quello esecutivo può già facilmente aggirare la magistratura, come è avvenuto fin qui: basta una legge fatta su misura per togliere di mezzo reati e norme «ingombranti».

L’aspetto più grave di questa politica senz’anima sono le negative conseguenze sociali e morali che essa produce. Per fortuna i cittadini onesti stanno aprendo gli occhi e, come dimostrano i risultati delle consultazioni elettorali successive al 2001, il vento sta cambiando.

Tra i tanti segni di risveglio, ci è parso particolarmente significativo lo sciopero generale del 30 novembre 2004 contro la legge finanziaria. Chi poteva mai immaginare che i lavoratori un giorno sarebbero scesi in piazza a denunciare il taglio delle tasse? In realtà, essi non hanno scioperato contro la diminuzione delle imposte, ma contro una riforma fiscale che, riducendo il numero delle aliquote, favorisce i ricchi e risulta irrisoria per i ceti popolari. I lavoratori hanno dovuto difendersi contro una legge che, mentre da un lato «educa» male i cittadini a pensare solo a se stessi e a cercare il proprio interesse allettandoli con la diminuzione delle tasse, dall’altro fa ricadere poi sulla collettività e in particolare sulle fasce più deboli le conseguenze di una politica utilitaristica e strumentale. Infatti, non occorre essere addetti ai lavori per capire che non si possono ridurre le tasse senza tagliare la spesa sociale o i trasferimenti agli enti locali, obbligando Comuni e Regioni a reperire sul territorio le risorse necessarie, con disagi maggiori per i meno abbienti. La coscienza democratica si rifiuta di approvare una riforma fiscale senza equità, che privilegia i ceti più fortunati e toglie con la sinistra ai cittadini più deboli ciò che sembra loro concedere con la destra. Ecco dunque il vero problema della crisi italiana di oggi: come restituire alla politica moralità e dignità.

2. Le gravi responsabilità del centro-sinistra

Di fronte ai guasti del «berlusconismo» e al profondo scontento del Paese verso il Governo, il comportamento del centro-sinistra appare incomprensibile. Mentre il Governo rimane a galla a forza di voti di fiducia e cercando di ammansire i membri inquieti della maggioranza con un posto di vicepremier, di ministro o di sottosegretario, non si comprende come il centro-sinistra non trovi la forza di superare al suo interno le vecchie logiche di appartenenza e meschini interessi di parte. Il collante della opposizione non potrà mai essere il solo antiberlusconismo. I dirigenti del centro-sinistra devono essere consapevoli che, continuando così, non avranno mai la fiducia dei tanti scontenti del «berlusconismo». Devono capire che è una forma di suicidio politico deludere la fiducia degli oltre 10 milioni di italiani (un terzo dell’elettorato) che alle elezioni europee 2004 hanno votato la lista «Uniti nell’Ulivo», convinti che fosse l’inizio di un cammino nuovo. E poi, anche l’opposizione (non meno della maggioranza) ha il dovere morale di cercare il bene comune: come rischiare di far perdere al Paese una simile occasione storica di rinnovamento?

Per il centro-sinistra dunque il problema è di proseguire il cammino iniziato, dando vita a un soggetto politico stabile, con regole e organi propri, che non sia soltanto una coalizione elettorale come fu il «triciclo». Lo scontento per il modesto successo ottenuto dalla lista unica alle elezioni europee del 2004 (il 31,1%, però, è pur sempre un buon risultato) e lo spostamento degli equilibri interni che si è verificato in seguito alla flessione della Margherita (attestatasi sul 10%) e al rafforzamento dei DS (avvicinatisi al 20%), non giustificano affatto l’interruzione della strada intrapresa: non si tratta, infatti, di dare vita a un impossibile partito unico, ma a una federazione (la FED) con un’unica lista e un unico simbolo, al cui interno i partiti mantengano ciascuno la propria identità. Le elezioni regionali e amministrative della prossima primavera potrebbero fungere da prova generale, prima delle elezioni politiche del 2006. Sarebbe un gravissimo errore perdere il passo con la storia, per non perdere spazi di potere.

Occorre riprendere subito il cammino. In particolare è importante che il nuovo soggetto politico nasca non per imposizione dall’alto o per decisione dei vertici, ma dal basso, dalle cento città, grazie al consenso culturale e politico da conquistare sul territorio. Ciò vuol dire fare sintesi tra il nuovo che emerge dalla società civile, le esigenze complessive del Paese e la necessità di andare oltre i particolarismi dei partiti.

Si è ancora in tempo per iniziare un paziente lavoro di tessitura in senso federativo del nuovo Ulivo, in vista delle elezioni politiche del 2006, coscienti che, se non decolla ora la FED, non ha senso pensare alla nascita di una Grande Alleanza Democratica (GAD), allargata a Rifondazione Comunista, all’Italia dei Valori (Di Pietro) e all’UDEUR (Mastella). A questo punto, però, non basta lo sforzo di evitare che si spezzino l’uno o l’altro degli anelli deboli dell’alleanza, ricorrendo a compromessi da prima Repubblica. Per uscire dalla crisi, oltre alla forza morale, occorre avere anche la volontà politica di andare al di là degli interessi particolari e di calcoli opportunistici. Sulla reale esistenza di questa volontà unitaria si gioca ormai la credibilità del confronto tra riformismo e «berlusconismo». Occorre dimostrare con i fatti (non solo a parole) che, a differenza del centro-destra, il centro-sinistra possiede un ideale, una cultura di governo, una prospettiva politica e la organizzazione necessaria — la più unitaria possibile — per elaborare e attuare un progetto alternativo. Da qui bisogna partire per costruire prima la FED e poi la GAD. Il documento unitario siglato il 10 gennaio dalla Margherita fa ben sperare.

3. Partire dal progetto

La elaborazione del programma deve precedere e accompagnare il formarsi della federazione. Non può essere, però, una sola corrente politica a elaborare un programma per la ricostruzione del Paese nella prossima Legislatura. Occorre che i riformisti di diversa matrice (liberal-democratica, socialdemocratica, cattolico-democratica e ambientalista) si incontrino ed elaborino insieme un progetto comune di societภche sia appetibile anche per le nuove generazioni. Urge rinnovare l’appello a tutti i «liberi e forti», che già cinque anni fa abbiamo lanciato da queste pagine (cfr SORGE B., «Quale futuro per il popolarismo?», in Aggiornamenti Sociali, 7-8 [1999] 509-516). Non si tratta di partire da zero, ma di fare un salto di qualità.

In primo luogo, occorre superare la concezione individualistico-libertaria del «berlusconismo», e fondare invece il progetto riformista su un personalismo responsabile. La «persona» non è una monade chiusa, ma è una realtà intrinsecamente sociale, relazionale. Non basta garantire ai singoli una libertà il più possibile estesa, ma priva di ogni responsabilità pubblica. Solo su una libertà personale ma socialmente responsabile si può costruire una democrazia solidale e ugualitaria, che dia la certezza che i diritti umani fondamentali (alla vita, alla famiglia, alla libertà, al lavoro, alla istruzione, alla sanità, ecc.) saranno tutelati non solo nella loro dimensione individuale, ma anche in quella sociale: quindi, non sopprimendo ma rinnovando lo Stato sociale, non rifiutando ma accettando le sfide molteplici della immigrazione, non abbandonando a se stesso il Mezzogiorno ma riconoscendolo quale problema nazionale prioritario.

In secondo luogo, una cultura politica riformistica dovrà voltare le spalle alla concezione privatistica dell’economia, tipica del «berlusconismo», che riduce al minimo il ruolo dello Stato e tende a privatizzare tutto: dalla sanità alla previdenza, dai beni culturali a quelli ambientali. Il problema è invece come armonizzare in modo creativo efficienza produttiva e solidarietà, responsabilizzando il terzo settore. Solo all’interno di un rapporto equilibrato tra privato, pubblico e legittima autonomia dei corpi intermedi e delle forze sociali si potranno affrontare le necessarie riforme nei settori chiave: giustizia, federalismo, mercato del lavoro, scuola, sanità, famiglia. Allora le riforme costituzionali si potranno fare senza mettere in discussione la democrazia rappresentativa e parlamentare, né l’equilibrio dei poteri, e si potrà realizzare un federalismo solidale che non intacchi, ma rafforzi, l’unità indivisibile della Nazione.

In terzo luogo, è necessario affermare il primato del bene comune, inteso come raggiungimento di traguardi sociali di benessere, di sviluppo economico, di qualità della vita, rifiutando la concezione egoistica di un bene comune inteso come somma dei beni individuali. Solo nell’ottica del concetto integrale di bene comune, «che si concreta nell’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della persona» (GIOVANNI XXIII, Mater et Magistra, n. 65), possono trovare spazio il rifiuto della guerra «senza se e senza ma», una politica internazionale ispirata al multilateralismo, la volontà sincera di combattere la fame e le malattie nel mondo, il dovere di salvaguardare l’equilibrio ecologico del pianeta, l’impegno serio per l’accesso del Terzo Mondo alle nuove tecnologie.

Sono soltanto alcuni spunti di un appello ai «liberi e forti», sui quali — senza perdere altro tempo — occorre subito confrontarsi e coagulare il consenso culturale e politico possibilmente di tutti i riformisti ovunque si trovino. Si tratta di costruire un nuovo Ulivo, non più solo attraverso il confronto tra le segreterie dei partiti, ma aprendosi realmente al dialogo con la società civile, con i movimenti e i tanti altri soggetti che abitano gli spazi della variegata area popolare democratica del nostro Paese. Perché non trasformare questi spazi di «area popolare democratica» nei nuovi «circoli» dell’«Ulivo che verrà»? Non potrebbe essere questa la carta vincente del centro-sinistra e di Prodi?